Il senso della sentenza della Corte di Giustizia UE sui tempi determinati

Trieste -

In queste settimane molte lavoratrici e lavoratori con contratti di natura subordinata e a tempo determinato stipulati con una amministrazione pubblica, si sono interrogati sull’applicabilità, ai loro casi concreti, della recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 26 novembre ’14 (Sezione III).

Scopo di questa nota USB è fornire a tutti uno strumento per comprendere il senso e la portata della sentenza.

La terza sezione della corte di giustizia UE è intervenuta in materia di successione di contratti di lavoro subordinato a tempo determinato stipulati con pubbliche amministrazioni italiane.

Essa ha preso le mosse da alcune domande di “pronuncia pregiudiziale” proposte alla Corte di Giustizia UE dal Tribunale di Napoli e dalla Corte Costituzionale italiana, nei procedimenti promossi da alcuni dipendenti pubblici (personale docente oppure personale ATA - amministrativo, tecnico ed ausiliario) contro il Ministero dell’Istruzione, Università e ricerca e contro il Comune di Napoli.

In primo luogo va evidenziato che tramite lo strumento del <rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia> un giudice nazionale (nel nostro caso italiano, ivi compresa la stessa Corte Costituzionale) solleva una questione interpretativa su una norma comunitaria.

La questione nasce dal fatto che il nostro Paese fa parte dell’Unione Europea e i giudici sono gravati dal compito, in fase di applicazione delle norme dei due ordinamenti (quello nazionale e quello comunitario), di riportarli ad unità.

Pertanto, quando il giudice nazionale si trova di fronte ad un contrasto tra norma interna e norma europea è tenuto a applicare la norma europea e la legge italiana (non importa se precedente o successiva) non va applicata. Questa regola vale solo e per tutte le norme europee munite del cosiddetto “effetto diretto”, vale a dire la capacità di una norma europea di creare direttamente diritti in capo ai singoli, anche senza l’intermediazione dell’atto normativo statale (la categoria è vasta; ne sono esempi i “regolamenti comunitari”).

Nei casi portati all’esame della Corte UE, invece, entrano in ballo le <direttive UE>. Sono atti normativi che hanno come destinatari gli Stati aderenti alla UE e non, dunque, tutti i soggetti giuridici dell’Unione, come per le norme ad “effetto diretto” (per es. i regolamenti UE, come illustrato nel precedente paragrafo).

 

Nel caso concreto dei tempi determinati delle scuole e del comune, si trattava della direttiva europea 1999/70/CE del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato.

Nel caso delle direttive UE, ogni Stato è vincolato per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salvo restando la competenza degli organi nazionali (il Parlamento) in merito alla forma e ai mezzi. Lo Stato ha, quindi, un obbligo di risultato. Questo significa che lo Stato può scegliere, in applicazione delle norme del proprio ordinamento, se dare attuazione alla direttiva con legge, con regolamento o anche solo con comportamenti dell’amministrazione pubblica, purché assicuri un’attuazione piena, corretta e certa ed entro il termine fissato dalla direttiva medesima.

Nel caso dell’Italia, la direttiva UE num. 199/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES è stata attuata (per così dire, tradotta) nel Decreto legislativo 06.09.01, n. 368.

A questo punto, durante un processo sorge una questione interpretativa:

 

le normative nazionali in materia di contratti a tempo determinato stipulati da una pubblica amministrazione sono compatibili (per dirla in altri termini, coerenti) con le correlate norme comunitarie?

 

Il giudice nazionale non poteva far altro che sollevare, appunto, una questione pregiudiziale di interpretazione di fronte alla Corte di giustizia dell’Unione Europea. Gliela prospetta in termini astratti, come una questione di interpretazione delle disposizioni europee (se sia compatibile con il principio X una norma nazionale che dice Y), senza che ciò divenga un’impugnazione della legge italiana (infatti, la Corte di giustizia UE non sindaca la legittimità delle fonti interne a ciascun Stato UE).

Il risultato è quanto scritto dalla Corte di giustizia UE nell’ultimo paragrafo (lo possiamo chiamare il dispositivo della sentenza) in cui dichiara quanto segue:

 

“La clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura nell’allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, quale quella di cui trattasi nei procedimenti principali, che autorizzi, in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza indicare tempi certi per l’espletamento di dette procedure concorsuali ed escludendo qualsiasi possibilità, per tali docenti e detto personale, di ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito a causa di un siffatto rinnovo. Risulta, infatti, che tale normativa, fatte salve le necessarie verifiche da parte dei giudici del rinvio, da un lato, non consente di definire criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di tali contratti risponda effettivamente ad un’esigenza reale, sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e sia necessario a tal fine e, dall’altro, non prevede nessun’altra misura diretta a prevenire e a sanzionare il ricorso abusivo ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato”.

 

In caratteri grassetto e\o sottolineato abbiamo evidenziato i periodi che più interessano.

Senza addentrarci oltre, ciascuno potrà comprendere che la decisione della sezione III della Corte di giustizia UE non dice: quella tale norma italiana è abrogata perché incompatibile con la direttiva europea. La Corte di giustizia UE, invece, rimanda “per le necessarie verifiche” ai giudici del rinvio, vale a dire ai Tribunali interessati dai casi concreti che hanno fatto sorgere la questione interpretativa.

Spetterà a ciascun giudice nazionale interpretare (rileggere) la normativa nazionale alla luce delle normative comunitarie, tenuto debito conto delle argomentazione della Corte di giustizia UE.

A questo punto, interviene un’altra questione che complica il tutto: siccome ogni giudice (ogni sentenza) fa parte a sé, vi potranno essere sentenze con le quali si riconosce la trasformazione del contratto a termine in un contratto a tempo indeterminato (circostanza già avvenuta nel caso del Tribunale di Napoli ma negata dal Tribunale di Trieste) ed altri tribunali che sentenziano solo un risarcimento del danno, con le casistiche più diverse riguardo all’importo da riconoscere a titolo risarcitorio.

È preventivabile (ed auspicabile) che si debba arrivare – ci auguriamo in tempi stretti – ad un intervento chiarificatore della Corte Costituzionale.

A questo punto, due considerazioni “politiche”:

 

1) La certezza del diritto è un bel principio insegnato nelle facoltà universitarie ma la vita quotidiana è altra e spesso insegna che i principi concreti sono altri, non sempre a tutela delle lavoratrici e dei lavoratori. D’altra parte, più in generale, l’attività di accertamento di un diritto (fatti salvi, bene inteso, i singoli magistrati onesti e corretti) è “sovrastruttura” del potere dominante nella società;

2) Pur continuando a seguire, doverosamente, tutta la vertenza giuridica in esame, rimane incontrovertibile che l’unica soluzione del fenomeno del precariato, diffuso tanto nel pubblico quanto nel settore privato, è politica e non giuridica.

 

USB, su queste premesse, invita tutte le lavoratrici ed i lavoratori a sostenere l’azione del sindacalismo di base, a partecipare alle iniziative che continuamente sono messe in campo, a farsi parte militante dell’azione sindacale dal basso.

 

È il momento di schierarsi, di passare dalla propria parte. L’azione è inevitabile.